Arrival – Recensione

Dodici navi aliene dalla curiosa forma atterrano in diversi punti del globo. Uno dei siti di atterraggio è nel Montana, dove viene condotta – insieme a un celebre astrofisico – la linguista Louise Banks, al fine di tradurre il linguaggio degli alieni (chiamati eptapodi) e comunicare con loro. Man mano che impara a comprendere gli strani logogrammi che gli alieni proiettano per comunicare, Louise inizia a percepire qualcosa che non aveva immaginato.

Il linguaggio di eventuali forme di vita aliene è un argomento ricchissimo di fascino, anche se molto spesso banalizzato e basato su un concetto di traducibilità e comunicazione bidirezionale decisamente umano. Se delle forme di vita avessero un apparato fonatorio e una struttura neurale e fisica del tutto diverse dalle nostre, saremmo in grado di tradurre e comprendere ciò che comunicano?

Di linguaggio e delle sue implicazioni parlò Samuel Delany in “Babel 17”, e ne ha parlato di recente China Miéville nello splendido “Embassytown”, immaginando alieni bivocali ed esseri umani geneticamente modificati per poter comunicare con loro.

Lo ha fatto anche quel geniaccio pluripremiato di Ted Chiang nel 1998 con il racconto “Storia della tua vita”, dal quale è stato tratto il film di Villeneuve. Del racconto parlerò in altra sede, ma possiamo dire che è stata una delle vette più alte raggiunte dalla narrativa fantascientifica breve, un mix di idee geniali e magnifica prosa, in grado di scardinare il concetto di tempo, spazio, libero arbitrio e scandagliare il rapporto umano con la vita e la morte. Non so quanti autori siano stati in grado di condensare tutto questo in tipo 80.000 battute, e non era un’opera semplice da tradurre in qualcosa digeribile da un pubblico eterogeneo.

La pellicola punta su scelte estetiche di grande semplicità ed efficacia: le navi aliene sono gusci liscissimi e privi di qualunque fronzolo, gli eptapodi sono poco più che ombre nella nebbia, i logogrammi con cui si esprimono sono macchie circolari; ciò che l’obiettivo va a indagare con insistenza è invece il volto di Louise, i suoi occhi e tutta la gamma di emozioni che esprimono (a proposito, bravissima Amy Adams). Il punto cardine del film è una grande intensità emotiva, che oltrepassa l’apparente “banalità” del drammone nella sequenza di apertura e, con un twist a metà dell’opera, ne stravolge il significato, spalancando un oceano di implicazioni che riguardano la vita, la morte, il tempo e la percezione che ne abbiamo.

Alla base c’è un’idea che non solo è bellissima e geniale, ma è stata convertita in fantascienza con eleganza, delicatezza, straordinaria umanità. Villeneuve sceglie un linguaggio visivo che sia più universale possibile, forse per andare a compensare il comparto “hard sci-fi” che necessariamente taglierà fuori una fetta di pubblico; e probabilmente per lo stesso scopo il tema centrale del racconto è stato semplificato all’estremo.

Una scelta che è da un lato “democratica”, perché permetterà anche al casalingo di Voghera di ricavare un’interpretazione (per quanto non corretta) della vicenda; dall’altro dà origine a un errore semantico che sposta il significato della storia su tutt’altro binario e ne stravolge il senso. Questa secondo me è la peggiore pecca del film (oltre a un finale troppo sbrigativo), anche da un punto di vista narrativo: il twist è accennato en passant, e chiunque non legga fantascienza o non conosca il racconto di Chiang avrà difficoltà ad afferrarlo e leggerlo nella giusta ottica.

A quanto pare, il grande bug della fantascienza che vuole rivolgersi a un pubblico generalista sembra essere il sacrificio della complessità; e se posso capire che il racconto d’origine sia troppo denso per proporne il vero fulcro a uno spettatore che non mastica la materia, mi spiace anche vederlo banalizzato così.

Per quanto abbia trovato discutibile questo specifico aspetto, al film di per sé non posso proprio dire nulla: regia eccellente, ottime scelte di casting, una fotografia straordinaria. Nel complesso, “Arrival” è una vera e propria esperienza visiva ed emozionale, un film che ti disorienta, ti sorprende e ti devasta. Non credo davvero si possa chiedere di più, per cui la smetto di fargli le pulci e consiglio a tutti, nessuno escluso, di correre a vederlo.

Concludo con una nota personale, ringraziando Chiang e Villeneuve per aver dato un senso a tutti gli esami di linguistica che ho dato all’università: allora non potevo saperlo, ma il loro vero scopo era consentirmi, anni dopo, di gustarmi davvero queste due opere. Grazie e VIVA IL GAVAGAI! ❤

 

4 pensieri su “Arrival – Recensione

  1. Obiettivamente, la miglior recensione che ho letto finora su questo film; anch’io ho troavto che alcuni particolari siano stati abbandonati a sé stessi, soprattutto risvolti logici dei paradossi temporali, rimasti negletti, Andrò a rileggermi il racconto, che non ricordo più.

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    1. Grazie mille, Franco!
      Ho letto da poco il racconto e lì alcune cose sono più approfondite. Ovviamente nel film hanno dovuto operare delle scelte, peccato solo per quel nodo centrale fuorviante che rovina un po’ tutto.
      A presto e grazie ancora del commento!
      Elena

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