L’uomo di Marte – Recensione

Una spedizione di sei astronauti su Marte incappa in una tempesta ed è costretta ad annullare la missione per tornare a casa. Soltanto cinque ripartono alla volta della Terra: uno di loro, il botanico Mark Watney, viene dato per morto dopo un incidente. L’uomo è però ancora vivo e si ritrova solo in un mondo morto e ostile. Senza perdere la speranza e confidando nella missione successiva della NASA, prevista qualche anno più tardi, Watney si ingegna al meglio delle sue possibilità per sopravvivere fino al salvataggio.

Sulla copertina de “L’uomo di Marte” sono citati “Robinson Crusoe” e “Gravity”, entrambi riferimenti azzeccati: come nel romanzo di Defoe il protagonista deve cavarsela in un mondo sconosciuto e pericoloso; come nello splendido film di Cuaron il contesto è completamente alieno, un luogo di solitudine totale in cui gravità e atmosfera sono diverse, non c’è ossigeno e rimediare un po’ d’acqua da bere richiede particolari conoscenze di chimica e ingegneria. (I riferimenti a “Gravity” finiscono qui, sia chiaro: le metafore e i temi del film non c’entrano molto col registro e le tematiche del romanzo di Weir).

Come si può intuire, il romanzo sconfina nell’hard sci-fi, filone della narrativa fantascientifica in cui si cerca – tramite accurate digressioni – il massimo realismo scientifico. Non so quanto l’opera sia riuscita in questo senso, anche se ho già sentito operatori del settore storcere il naso su qualche libertà concessasi dall’autore; dal punto di vista narrativo è una scelta che tende un po’ a stancare, sebbene il particolare carattere del protagonista e il suo modo di raccontare aiuti il lettore a non perdere troppo la concentrazione. L’obiettivo è rendere credibile la permanenza di un essere umano su Marte per un periodo piuttosto lungo e in questo senso l’autore, scienziato prodigio alla sua prima fatica letteraria, attinge al proprio bagaglio culturale per rendercelo più verosimile possibile.

La caratterizzazione del protagonista è una scelta che paga parecchio: Mark Watney è una voce ironica, piena di vita, di speranza, capace di scorgere il lato positivo e le possibilità di riuscita in ogni cosa. A lui è legato uno dei temi portanti dell’opera, la resilienza (di cui lo scorso anno parlò anche la nostra Giulia Abbate in un racconto apparso su “Crisis”): la capacità umana non solo di resistere alle avversità, ma di trovare dentro di sé le risorse per sopravvivere e andare avanti malgrado tutto. Di contro, Weir tende a tirare un po’ troppo la corda da questo lato: dissemina il cammino di Watney di ostacoli (ci si aspetta fino all’ultimo che spunti un marziano ad addentargli il polpaccio) e cura poco l’evoluzione psicologica, supponendo che vivere su un altro pianeta senza risorse e in totale solitudine non influisca un minimo sul carattere e la salute mentale di una persona (il tempo passa, ma si ha sempre l’impressione che il protagonista sia lì da un paio di settimane al massimo). Lo stesso dicasi per alcune scelte piuttosto importanti compiute a cuor leggero da altri personaggi, esigenze di copione, ne convengo, ma un po’ troppo facili se così presentate.

Dal punto di vista narrativo, il romanzo è raccontato – nel bene e nel male – con una tecnica cinematografica, tanto che sembra concepito per essere trasformato in un film (e infatti è già prevista l’uscita nelle sale statunitensi alla fine del 2015). Nel bene, perché questa scelta alimenta la suspense, facilita l’evocazione e rende la lettura scorrevole; nel male perché l’autore non fa mai una scelta narrativa precisa, ma cambia “inquadratura” a seconda della convenienza (diario; narratore in terza persona; rapide descrizioni di respiro planetario). A volte sembra di leggere uno storyboard in forma testuale, pronto per finire davanti alla cinepresa: il che a tratti si percepisce poco, a tratti di più e a tratti può infastidire un pelino.

Ma Weir non è uno scrittore, questo lo si nota nonostante l’ottimo lavoro: si percepisce infatti anche la mano di quattro o cinque editor che devono averlo assistito, aiutandolo a trasformare le sue idee, la sua ironia, il suo piglio brillante e le sue competenze in un romanzo dalla prosa fluida e facilmente leggibile. (Non è una critica, anzi: è meglio scardinare il più possibile l’idea che un romanzo sia il parto di una sola mente e una sola mano).

La suspense, che ho già citato come uno dei pregi principali del romanzo, resta viva dalla prima all’ultima pagina, insieme a una bellissima riflessione finale che ho apprezzato molto.

Film o non film, “L’uomo di Marte” si è quindi meritato un’ampia percentuale delle lodi che gli sono state rivolte in tutto il mondo: tra i fantascientisti è il romanzo del momento e sta raccogliendo pareri positivi, a cui aggiungo anche il mio.

Mark Watney, insomma, sopravvivrà o no? Potete scoprirlo leggendo “L’uomo di Marte”, di più non si può dire.

[recensione di Elena Di Fazio apparsa anche sul sito di Studio83: “L’uomo di Marte” – recensione]

7 pensieri su “L’uomo di Marte – Recensione

    1. Ciao! Grazie mille per il consiglio! Ho finito di leggere “Volo Su Titano” qualche settimana fa, e sto preparando la recensione da pubblicare qui su LSD. Recensione ovviamente positiva! L’ho trovato ben scritto, divertente, intelligente, davvero piacevole, oncredibile pensare che sia stato scritto così tanto tempo fa 🙂 Certo che la traduzione aiuta, mi è parsa davvero ottima. 🙂 Grazie e a rileggerci!

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      1. Mi fa molto piacere che anche tu abbia apprezzato “Volo Su Titano”, e aspetto con piacere la tua recensione. Grazie a te per la risposta, e a rileggerci! 🙂

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